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Allenarsi al confronto

  • Immagine del redattore: Lucia Benatti
    Lucia Benatti
  • 27 mag
  • Tempo di lettura: 6 min

Il valore nascosto della supervisione


Non basta lavorare fianco a fianco per sentirsi davvero parte di un team. Il confronto autentico è ciò che trasforma un gruppo di persone in una squadra capace di collaborare, decidere e crescere insieme. Eppure, troppo spesso viene evitato per timore del conflitto, mancanza di tempo o semplice abitudine al silenzio. Come un albero che ha bisogno di radici forti per crescere e reggere nelle tempeste, anche un team ha bisogno di coltivare pratiche condivise che mettano radici profonde nella cultura del “fare insieme”.Questo articolo riflette sul valore del confronto nei contesti di lavoro, su cosa accade quando viene attivato, e su come la supervisione possa offrire uno spazio sicuro dove allenarsi a praticarlo. Un invito a prendersi cura del “noi” prima che le distanze diventino strutturali.




In un mondo del lavoro che corre veloce, dove l’operatività quotidiana sembra sempre avere la priorità, ritagliarsi uno spazio per fermarsi e confrontarsi può sembrare un lusso. Eppure è proprio in questi spazi di sospensione che i team trovano risorse preziose per rigenerare la propria capacità di collaborare e affrontare le sfide in modo coeso.


Nel lavoro di gruppo è facile pensare che “ci intendiamo” solo perché condividiamo obiettivi, linguaggi e procedure. Ma chi vive la quotidianità dei team sa che non è così semplice: spesso è nelle pieghe del quotidiano, nei piccoli fraintendimenti, nelle abitudini individuali, nelle divergenze mai esplicitate che si annidano le fatiche più grandi.


Il confronto non è un rischio, ma una risorsa


“L'individualità è possibile solo se si sviluppa dalla totalità.” David Bohm


Uno degli aspetti più preziosi, e più sottovalutati, del lavoro nei team è la possibilità di confrontarsi in profondità. Non per correggere o uniformare, ma per comprendere. Per dare dignità a ogni voce, per accogliere le differenze come base per costruire allineamenti più autentici.


Nel mondo del lavoro, confrontarsi non dovrebbe essere un’eccezione, ma una competenza consolidata, supportata da pratiche organizzative coerenti che favoriscano abitudini virtuose: spazi regolari di confronto, modalità strutturate di ascolto reciproco, tempi e linguaggi condivisi.


Quando questo manca, le conseguenze si fanno sentire: tensioni che si accumulano, decisioni svuotate di senso, routine rigide, malintesi cronici, pratiche individualizzate.

ll risultato? Persone demotivate, processi confusi e un clima di frustrazione.


Perché il confronto è così difficile?


Le ragioni sono molte. Spesso si teme di creare conflitti, di urtare la sensibilità altrui, o semplicemente di esporsi. Altre volte si confonde il confronto con lo scontro, o si ha l’illusione che basti “andare avanti” per sistemare tutto.Gli alibi più ricorrenti che incontriamo nei team di lavoro sono la mancanza di tempo, la priorità data all’operatività e la rassegnazione silenziosa che si esprime nel pensiero “tanto non cambierà mai nulla”.

La verità è che confrontarsi richiede energia, consapevolezza e il coraggio di esporsi con autenticità, ma anche di mettersi in discussione senza il bisono di difendersi a tutti i costi.

Il confronto non è mai del tutto comodo, ma può diventare generativo se vissuto come strumento per comprendersi meglio, per far emergere possibilità nuove, per allinearsi ad un fare comune, per allenarsi a costruire fiducia.


Cosa accade quando ci si confronta davvero?


Confrontarsi in modo autentico significa accettare che ci siano differenze: di visione, di sensibilità, di stile, di obiettivo e scegliere di non ignorarle. Significa sospendere il giudizio e assumere che ogni punto di vista abbia un pezzo di verità da offrire. È un atto di fiducia reciproca.

Quando un team si esercita a confrontarsi così, qualcosa cambia. I malintesi si riducono, le decisioni diventano più condivise, il senso del lavoro si rinforza.

Si lavora con maggiore fluidità, con meno tensioni latenti, con più motivazione e paradossalmente si guadagna tempo e spazio per ciò che è importante.


I momenti più trasformativi non nascono necessariamente dalla volontà di ‘risolvere’ un caso problematico, ma dalla disponibilità a restare nel campo di tensione che esso apre. Un caso critico, una decisione difficile, una comunicazione ambigua diventano occasioni per osservare come si muovono i significati, i ruoli e le emozioni all’interno del gruppo. In questo spazio sospeso, dove nessuna verità è definitiva, si esercita una forma di apprendimento che non mira a produrre coerenza, ma a moltiplicare i punti di vista e a generare comprensioni situate. L’obiettivo non è il superamento del problema, ma l’ampliamento della capacità collettiva di abitare l’incertezza.


Per questo, confrontarsi su un’esperienza reale – un errore, un conflitto, una scelta ambigua – non serve tanto a “risolvere il caso”, quanto a esplorare ciò che ha messo in moto, cosa ha fatto emergere tra le persone, quali domande ha lasciato aperte. Il caso diventa un’occasione per allenarsi a stare nella complessità, a dare parola a ciò che normalmente resta implicito, ad accogliere anche le dissonanze come elementi generatori di consapevolezza.



La fiducia si costruisce nella trasparenza


Non esiste collaborazione senza fiducia. E la fiducia nasce dalla trasparenza, dalla possibilità di portare anche ciò che è scomodo, di esprimere dubbi, disagi, opinioni controcorrente, sapendo che verranno accolti con rispetto, ascoltati e non giudicati a priori.


Un team che si esercita a confrontarsi in modo autentico diventa più solido, più flessibile, più capace di affrontare il nuovo senza perdere il filo comune.

Come afferma Patrick Lencioni: “Il lavoro di squadra inizia costruendo la fiducia e l’unico modo per farlo è superare il nostro bisogno di invulnerabilità.”


Superare il bisogno di invulnerabilità significa non stare in difesa di sé, non rifugiarsi nella giustificazione di ciò che si è fatto o di come lo si è fatto. Significa invece aprirsi alla possibilità di mettere in discussione ciò che esiste, non per sminuirlo, ma per allinearlo a una traiettoria comune. Non basta che io abbia svolto bene il mio compito, se quel contributo, pur corretto nella sua esecuzione, non ha messo il team nelle condizioni di avanzare in modo efficace e coordinato.


La qualità del lavoro individuale ha valore solo quando si traduce in valore collettivo.


Ed è proprio qui che la supervisione si rivela uno strumento prezioso: offre al team l’occasione concreta per riflettere su ciò che accade nella pratica quotidiana, trasformando le esperienze, anche quelle faticose, in momenti di apprendimento condiviso.


La supervisione come spazio di allenamento


Nella nostra esperienza i momenti di supervisione diventano il contesto in cui tutto questo può accadere in modo protetto, facilitato e generativo.

Non è un momento correttivo o valutativo, ma uno spazio per osservare ciò che accade nel gruppo, dare forma a ciò che è implicito, nominare le dinamiche invisibili.


Ci siamo imbattuti, ad esempio, in contesti in cui ciascun membro del team eseguiva puntualmente le proprie attività, ma all’interno di un flusso di lavoro frammentato e privo di visione condivisa. Le informazioni non erano accessibili nel momento e nel luogo in cui servivano; diversi colleghi intervenivano sullo stesso contenuto senza visibilità reciproca, generando duplicazioni, omissioni involontarie, o spreco di energie. In assenza di riferimenti comuni, ogni operazione risultava scollegata dalle altre, compromettendo l’efficienza complessiva e generando lontananza e frustrazione tra i membri del team.


Offrire un momento di supervisione ha rappresentato un’occasione preziosa per osservare e ricostruire insieme il processo di lavoro: chi fa cosa, perché, con quale obiettivo, attraverso quali strumenti. Ma soprattutto: quali pratiche di interazione sono necessarie affinché il lavoro di ognuno faciliti l’operatività di tutti.


La supervisione diventa un laboratorio di fiducia: ci si allena a guardarsi negli occhi, a dirsi le cose con rispetto e autenticità, a riconoscere l’altro come risorsa anche quando non la pensa come me.


Nel tempo, diventa una cura del “noi”: uno strumento periodico per coltivare le relazioni, affrontare i conflitti in modo generativo, e nutrire quel “fare insieme” che troppo spesso viene dato per scontato.


Un’équipe non è mai solo la somma delle persone che la compongono, ma un organismo vivo che si costruisce attraverso le interazioni. Questa è intelligenza collettiva.

E voi: come create spazi di confronto autentico?


Non si tratta solo di risolvere problemi, ma di imparare a parlarne. Di osservare le proprie abitudini, mettere a tema le divergenze, scoprire cosa si dà per scontato e cosa invece va nominato. Di costruire linguaggi comuni e nuovi modi di stare e fare insieme.


Nel vostro team:

●      Che spazi e pratiche vi date per guardarvi davvero, senza fretta, senza ruoli rigidi, senza dover dimostrare nulla?

●      Quali sono le condizioni che vi facilitano il confronto?

●      E quali i vostri alibi ricorrenti per evitarlo?


Allenarsi al confronto è un atto professionale, ma anche profondamente umano. È nella qualità delle nostre conversazioni che si gioca la possibilità di costruire un “noi” solido, vivo, generativo.

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